<%@ Language=JavaScript %> Jacopo da Marano - Marano di Valpolicella

 

JACOPO DA MARANO

MARANO DI VALPOLICELLA

 

da l'Arena - mercoledì 13 ottobre 2004 provincia pag. 25

Nel lungo elenco dei vicari che dal 1414 alla caduta della ...

Nel lungo elenco dei vicari che dal 1414 alla caduta della Serenissima Repubblica di Venezia, rappresentarono la massima autorità amministrativa e legale della Valpolicella, figurano anche alcuni rappresentanti della nobile famiglia Marani, o Da Marano, che risiedeva a Valgatara. Jacopo in particolare, figlio di Giacomo, fratello di Nicolò e Annibale, nonché padre di Oratio, tutti a loro volta vicari, viene ricordato per uno degli eventi più importanti nella storia di Verona, come spiega il giornalista Rinaldo Dal Negro nel libro Contea e Vicariato della Valpolicella . «Durante la guerra Veneto-Viscontea del 1439», racconta Dal Negro, «si distinse valorosamente e dimostrò incondizionata fedeltà e attaccamento alla Repubblica Veneta l’allora vicario della Valpolicella Jacopo Da Marano. Alla testa di mille uomini reclutati in Valpolicella si impossessò del valico della Chiusa permettendo così alle truppe della Serenissima, comandate da Francesco Sforza, di giungere fino a Verona. Qui, dopo aspre battaglie durate quattro giorni, gli uomini degli Sforza e dei Marani riuscirono a scacciare le truppe gonzaghesche comandate da Niccolò Piccinino, che avevano invaso Verona al soldo di Filippo Visconti di Milano». L’impresa fu narrata anche dal sacerdote umanista Giangiacomo Pigari e, tradotta dal latino, riproposta recentemente da don Egidio Ferrari, parroco di Valgatara, studioso e ricercatore. Dal racconto del Pigari emergono il carattere e la grande determinazione del nobile maranese. «La guardia della Chiusa era stata affidata al vicario della Valpolicella Jacopo Marani, o da Marano, che la teneva con mille uomini “da mani” o “da fatti”, come allora si diceva. Resosi conto della difficoltà dell’impresa, il Gonzaga cercò di ottenere con l’inganno ciò che era assai dubbio potesse ottenere con la forza: fece cioè sapere al Marani che, avendo occupato la notte precedente Verona, teneva in suo potere la giovane moglie e i figlioletti di lui, e che se non gli avesse assicurato il possesso della Chiusa, avrebbe gettato la donna in balia dei soldati e uccisi i fanciulli. Ma le minacce del Gonzaga non fecero presa sul forte animo del vicario; il quale respinse il messo e s’affrettò a informare lo Sforza. Subito questi mosse con l’esercito da Torbole, attraversò la Chiusa sempre vigilata dai mille uomini della Valpolcella e, raggiunta Verona dalla parte di Castel San Felice, assalì e vinse il nemico liberando la città dopo soli quattro giorni dalla sorpresa operata dal Piccinino. Ciò accadde il 20 novembre 1439. La vittoria fu celebrata con manifestazioni di giubilo a Verona e nel territorio, e un’ambasceria fu inviata a Venezia il cui governo dispose che speciali onori fossero tributati allo Sforza e ai suoi collaboratori, tra i quali figurò in primissima linea Jacopo Marani».
Non è casuale che un capo di Marano abbia potuto assoldare truppe di valore: la gente della valle vantava una nomèa di coraggio e scaltrezza, nata anche dalla dimestichezza con la rischiosa professione di contrabbandieri. Il confine con il principato di Trento prima e l’Austria poi attraversava la Valdadige e la dorsale lessinica. Da Breonio in giù quindi, fino alla prima guerra mondiale, la Valpolicella si trovò a essere terra di confine «chiusa a passaggi regolari di uomini e merci», come dice lo storico Pierpaolo Brugnoli, presidente del Centro di documentazione per la storia della Valpolicella «ma aperta a contrabbandi d’ogni genere».
I contrabbandieri scendevano dal Trentino passando per Sega di Ala, costeggiavano il Corno d’Aquilio verso Rocca Pia e poi si infilavano tra il monte Loffa e San Giovanni, per scendere poi nella valle dei progni di Fumane, da dove risalivano fini ai masi di Marano. Passando da Cerna poi risalivano verso il trentino, stando bene attenti a non toccare centri abitati dove vi fossero caserme. Di qua o di la del confine, dove la tasse erano più convenienti, portavano caffè, zucchero, tabacco, sale e granaglie. Molti di loro erano ormai diventati famosi in tutta la valle, e i loro sentieri venivano spesso usati dalla stessa gente del luogo per trasferirsi da un paese all’altro. «Del resto», continua Brugnoli, «antichi sentieri da sempre avevano messo in relazione la Lessinia occidentale con la Valdadige: gente di qui aveva contratto matrimoni con gente di là e continui erano stati gli spostamenti migratori». Le autorità hanno cercato più volte di ovviare al contrabbando, facendo tagliare i sentieri». Invano. Poi, quando soffiavano i venti di guerra, faceva comodo trasformare i «pericolosi contrabbandieri» in combattenti.