La zona si distingue per un insediamento piuttosto rado, ma di antichissima origine, addirittura preistorica. Se si esclude l’impatto esercitato dalle cave di marna e di calcare per il cementificio di Fumane, il paesaggio testimonia un rapporto particolarmente equilibrato tra l’uomo e l’ambiente.
La corte di Marezzane per esempio – mappata fin dal Settecento – è un pregevole esempio di architettura rurale lessinica. Essa si compone di tre fabbricati, collocati sulla parte in altopiano dell’omonimo colle, tutti costruiti con pietra cavata in loco, ma che versano oggi in stato di abbandono. Si segnalano, inoltre, le contrade di Mazzarino di Sopra, a dominare la Valle dei Progni, e Mazzarino di Sotto, a delimitarne l’area verso Sud. Numerose le tracce che il lavoro umano ha lasciato nel paesaggio, come le marogne e, sul versante a Nord, una “giassara” con relativa sorgente, a segnalare la varietà dei microclimi presenti in un’area relativamente ristretta.
La componente di maggior pregio è data dalla grande varietà di specie floro faunistiche. In tal senso, si segnala il sito della collina di Marezzane, a circa seicento metri di altitudine, sul fianco sinistro della Valle dei Progni, di fronte al monte Pastello. Essa forma un tutt’uno ambientale e paesaggistico con la zona SIC – Sito di Interesse
Comunitario – di Molina, collocandosi in una posizione di trait d’union tra i due habitat della Lessinia e della Valpolicella. Rilevanti, da un punto di vista naturalistico, sono le zone umide delle sorgenti del rio Baighe. Il suo corso ha scavato un solco profondo nel fianco del colle, segnalandosi per i suoi ventuno salti, di cui quattro superiori ai venti metri. Il rio Baiaghe, parallelo alla Val Sorda, isola a mo’ di promontorio la Porcassola, dove si trovano le grotte “Buso Streto” e “Coalo del Diaolo”.
Le grotte, assieme ai covoli, sono veri e propri micro-habitat. È qui che si localizzano presenze antropiche di epoca preistorica. Nel Coalo del Diaolo, esplorata nel 1936, furono rinvenuti il frammento di un’ascia e alcuni pani di bronzo. Si trattava probabilmente del ripostiglio di un artigiano metallurgico, che qui li aveva nascosti
verso la fine del II millennio a. C. (età del Bronzo recente). Nel secondo sito archeologico – denominato Buso Streto per l’esigua fenditura che ne costituisce l’ingresso – sono venuti alla luce cenere e carboni frammisti a cocci, selci, punteruoli d’osso e anche frammenti di calotta cranica appartenenti ad un giovane individuo.
Questi reperti permettono una datazione risalente alla prima metà del II millennio a. C. (antica età del Bronzo). La grotta doveva avere, dunque, un uso sepolcrale, per deposizioni singole e multiple, secondo un rito diffuso in tutto l’arco alpino durante l’eta’ del Rame e l’antica età del Bronzo. Alcuni cocci, trovati negli strati superficiali,
attestano anche una frequentazione alto medioevale, probabilmente da parte di pastori e boscaioli. Tali ritrovamenti, nel loro insieme, confermano che durante l’età del Bronzo esisteva una comunità il cui insediamento era probabilmente posto sui pianori al di sopra dei ripidi pendii delle grotte.
Al di là della presenza umana, queste grotte sono di grande interesse perché sono “ambienti limite”, abitati cioè da organismi che si sono evoluti nel tempo adattandosi all’assenza di luce, all’umidità elevatissima e ad un’estrema scarsità di fonti alimentari. Per questa ragione la fauna cavernicola – insetti, millepiedi, ragni, crostacei, ecc… – sono depigmentati, ciechi, hanno antenne e zampe spesso molto allungate. Tra essi si
segnala il coleottero Italaphaenops dimaioi, che con i suoi 15 mm. di lunghezza è il coleottero cavernicolo più grande del mondo. Oltre alle grotte, altre formazioni geologiche di grande interesse sono i fenomeni carsici dei cosiddetti covoli. Sul versante occidentale del monte Noroni (788 m. s.l.m.) affiorano rocce carbonatiche, costituite da calcari dolomitizzati in assenza di idrografia superficiale attiva. Queste cavità si aprono in rocce sedimentarie dell’era Secondaria. Di natura calcarea, esse si sono formate in ambiente marino, per deposizione di sedimenti fini, in un arco temporale compreso tra i duecento e i centotrenta milioni di anni fa. E’ lo stesso periodo in cui hanno avuto origine gran parte delle rocce affioranti in Lessinia: calcari grigi, calcari olitici e rosso ammonitici. Alla fine dell’era Secondaria – 65 milioni di anni fa – iniziò un più lento e progressivo innalzamento dei fondali marini che portò alla costituzione delle Alpi. Le rocce, esposte agli agenti atmosferici, iniziarono a subire reazioni di erosione e dissoluzione che portarono alla formazione di cavità e reticoli sotterranei molto estesi. La successiva erosione da parte dei corsi d’acqua superficiali – i progni – ha determinato lo scavo delle valli, veri e propri canyon carsici, con la messa allo scoperto di antiche condotte sotterrane. Nei covoli di Marano sono presenti alcune tra le più caratteristiche specie troglobie dei Lessini, come il crostaceo isopode Androniscus degener e il millepiedi Trogloiulus boldorii. Sulla dorsale che separa Ciacalda dalla Val Sorda, esistono altri siti di notevole interesse geologico e naturalistico: il Coalo de la Veceta, la Grota dell’Aloco, l’Arco de Pio e, in particolare modo, la Sengia de Rotolin, dalla quale si può ammirare la
lussureggiante Valle dei Progni.
A metà tra la formazione geologica e l’ambiente antropico, si colloca, invece, la sabionara di Ciacalda. Essa è la rara testimonianza di una particolare attività estrattiva condotta nel territorio di Marano. Negli anfratti del terreno, in apposite cave, veniva estratta una “sabbia” molto fine, ricercata per la sua capacità abrasiva. Assieme alla cenere, essa era ampiamente utilizzata, in assenza di detersivi, per detergere le stoviglie e soprattutto le pentole. Lo scavo sotterraneo di questa sabbia ha fatto sì che si formassero veri e propri cunicoli, alcuni visibili ancor oggi, altri crollati per l’inconsistenza del terreno.
Il paesaggio naturale è completato da una flora molto varia, caratterizzata da una vegetazione di boschi ad alto fusto, da prati e da zone coltivate a ciliegi e vigneti.L’elemento di maggior pregio sta nel fatto che questa è la zona con il più alto numero di orchidee selvatiche di tutta la provincia di Verona (26 specie rilevate dal GIROS – Gruppo Italiano Ricerca Orchidee Selvatiche). Il quadro naturalistico di questa zona del Parco è completato dalla grande varietà di uccelli, dettagliata nella sezione riguardante la biodiversità. L’aspetto caratteristico è dato dalla compresenza di alcune specie di uccelli che normalmente vivono in habitat diversi. Tra tutti, si segnala la compresenza di tre specie di picchi – verde, rosso maggiore e nero – e di quella del “rampichino” con il “rampichino alpestre”.