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Le Giassare

Quando si parla di “architettura spontanea”, si fa riferimento a quella serie di costruzioni che s’inseriscono, senza ferirlo, nel paesaggio. L’altipiano lessinico ed in genere tutta la montagna veronese, certamente offrono all’attento escursionista svariati esempi di quest’architettura.
Tra i suoi “gioielli” certamente un posto di rilievo va dato alle “giassare”, quelle rotonde costruzioni che un tempo, forse anche non molto lontano, punteggiavano i morbidi dossi ed i verdi pascoli della nostra montagna. Il commercio e la produzione del ghiaccio tra questi verdi silenzi risalgono al XVI sec., ma saranno il ‘700 e l’800 a dare il maggior sviluppo a quest’attività, motivo di sostentamento, ma spesso anche d’incontro tra due mondi, che continuerà fino al primo dopoguerra, momento in cui, a causa dell’industrializzazione del settore, le “giassare” vedranno sciogliere il loro carico.
L’impianto di produzione consisteva essenzialmente in due componenti: la pozza, dove si produceva il ghiaccio, e la “giassara” vera e propria, dove esso si conservava. Importante era anche I’ubicazione, sempre in luoghi scarsamente soleggiati, in versanti a tramontana, ombreggiati da alberi, ad altitudine variante dai 700 ai 1000 metri.
Il maggior centro di produzione era certa- i mente in Lessinia Centrale, nella dorsale Cerro-Boscochiesanuova e nel territorio di S. Anna, dove ancora oggi è possibile vedere alcuni interessanti esempi di queste costruzioni. La pozza che raccoglieva I’acqua piovana era sempre di forma circolare, con una profondità di circa un metro e con una superficie variante intorno ai 200 metri, col fondo reso impermeabile dall’argilla che veniva spesso “battuta” dagli zoccoli delle vacche.
La vicina costruzione, la ghiacciaia, era costituita da un pozzo profondo mediamente 15 metri, di cui due sopra terra; il diametro variava intorno ai 10 metri. Costruito esclusivamente in pietra, in sasso, il pozzo era coperto o col “canel”, la canna palustre, che formava la caratteristica copertura a cono, o da un tetto in “lastra” spiovente da un lato, sostenuto da grosse travi in legno.
Nella parte a vista, la rotondità del pozzo era interrotta da due finestre, una verso la pozza per il caricamento del ghiaccio ed una verso strada per il recupero del prodotto. Durante il periodo estivo si provvedeva alla pulizia del complesso in preparazione alla futura attività. Tra dicembre e febbraio iniziava la formazione del ghiaccio in pozza e quindi il lavoro per i “giassaroi”. A S. Zeno di Montagna sul Monte Baldo, dove è ancora visibile una “giassara in località La Quercia, il taglio iniziava per l’uso il 9 dicembre, giorno di S. Siro.
A scadenza settimanale si procedeva al taglio e al recupero del prodotto; con delle affilate accette, le “segure”, e con l’aiuto di un asse a misura della lastra di ghiaccio voluta, si procedeva partendo dai bordi della pozza al taglio delle prime lastre che generalmente erano di misura variante intorno al metro di lunghezza per 0,70/ 0,80 di larghezza, con uno spessore di 10 centimetri circa. Il gruppo di lavoro era formato da una decina d’uomini, ciascuno con un compito ben preciso. Due sulla “barca”, la parte di ghiaccio che galleggiava al centro della pozza, che si occupavano della rigatura e del taglio, gli altri fuori della pozza per il recupero tramite ganci delle lastre estratte e per il calo in “giassara”, con l’aiuto d’argani, del prodotto. Nel pozzo, le lastre così raccolte venivano depositate in gruppi di due/tre andando a formare il “solaro” che doveva presentare verso l’alto sempre la parte ruvida e non la parte che era stata a contatto diretto con l’acqua della pozza, questo perché la parte troppo liscia non avrebbe logicamente permesso a chi stava in “giassara” per il recupero, di stare in piedi. Tra un “solaro” e l’altro, e sul fondo, affinché gli strati non facessero tra loro presa, veniva messo uno strato di paglia e foglie; gli spazi vuoti venivano riempiti con neve e ghiaccio tritato.
Alla fine dell’inverno, le due finestre della “giassara” oramai piena, si pensi a circa 400 mc di prodotto, venivano chiuse con paglia e fascine o da una porta in legno, che si apriva nei primi giorni della stagione calda, quando iniziava l’estrazione del prodotto dalla “banca del ghiaccio”. Con l’aiuto del “fusel” (argano), si facevano salire le lastre, che un “giasarol” legava da dentro il pozzo, direttamente alla finestra verso strada da dove venivano caricate “a cortei” (di costa) sulle “carete”; su questi originali carri molto lunghi e stretti, rivestiti di lamiera, a sera inoltrata affinché la temperatura fosse più fresca e ci fosse così minor perdita di prodotto, i nostri “giasaroi” iniziavano i Toro notturni viaggi verso le “basse” per offrire il loro prodotto agli abituali clienti: “i siori”, i macellai, i gelatai, ma spesso anche alberghi e ospedali. Un simpatico proverbio, legato al chilometrico rigagnolo che “segnava” il loro passaggio, affermava che “i giasaroi i trasformava l’acqua in vin”, questo per sottolineare che parte del loro guadagno veniva spesso “trasformato” nelle osterie della città, a quel tempo forse modesta ed unica variante alla loro dura e “fredda” attività.
Per poter vendere il ghiaccio, occorreva una speciale licenza rilasciata dal Comune; per questo motivo sulla sponda della carretta era d’obbligo mettere un cartello: vendita di ghiaccio naturale per uso domestico. Il viaggio dal luogo di produzione era spesso difficoltoso; il sonno e le strade erano i naturali elementi che accompagnavano “el giassarol” durante il suo lungo tragitto. Nella discesa il conducente lasciava spesso allo stesso cavallo l’onere della guida, non dimenticando mai però, soprattutto nei tratti in curva, di azionare “la macanicia”, il freno a mano, affinché la “velocità” non causasse sbandamenti o incidenti.
Considerando che mediamente da ogni “taglio” era possibile raccogliere circa 300 q.li di prodotto, si può dedurre come questa attività fosse un buon sostentamento alla magra economia familiare di allora. L’arrivo in città dei “giassaroi” era spesso accompagnato dalla “maraja” dei ragazzini in festa per questa “novità”; piccole figure per i quadri di Dall’Oca e soggetti per il Barbarani, frammenti di ghiaccio “rubati” alla svelta, “marene” fresche, sprazzi di vita popolare, incontro “de pitochi “. Momenti di vita montanara, momenti irrecuperabili.
Anche le “giassare” fanno parte di un patrimonio il cui recupero, conservazione e valorizzazione sono di grande importanza per tutti coloro che sanno leggere attraverso le vecchie testimonianze.

Notiziario BPV 1987

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