Marano di Valpolicella - libro edito nel 1967

MARANO DI VALPOLICELLA

 

 

 

 

DALLA PREISTORIA ALLA STORIA a cura di OLINDO FALSIROL

La presenza dell'uomo sui Lessini risale, in quanto è dimostrabile, a un 16o mila anni or sono, quando la pianura del Po si estendeva fino a coprire tutta la parte superiore dell'Adriatico e quel fiume sboccava in mare a metà, circa, d'una linea che si tiri fra Zara e Ancona. Tuttavia, della vita sociale di quei remoti abitatori dei nostri monti, che, a partire da allora e per tutto il restante periodo glaciale lasciarono qualche esigua traccia di sé a S. Anna d'Alfaedo e tracce più significative e sicure a Quinzano, ben poco sappiamo.

Per avere maggiori notizie della Lessinia preistorica, dobbiamo arrivare a qualche millennio a. C., a una epoca, cioè, a noi relativamente vicinissima.

,La configurazione orografica era ormai quella attuale, ma, senza dubbio, più fitta e pressoché continua la copertura boschiva, più numerose e abbondanti le sorgive, più varia e ricca la fauna selvatica. La rappresentavano, tra l'altro, tutte le famiglie di mammiferi che ancor oggi vivono nella regione o che potrebbero, almeno in certe sue parti, continuare a viverci, se, come p.e. l'orso bruno, il cervo, il capriolo, il cinghiale e il lupo, l'uomo non le avesse distrutte o costrette a cercarsi altre sedi.

In un'area compresa, così a un di presso, tra la valle di Tregnago e il vaio di Mezzo a oriente, la Purga di Velo, al Ceré e il territorio di S. Anna a nord, la valle dell'Adige a ovest, Montorio e Quinzano a sud, ave­vano stanza popolazioni legate da una co­mune economia. Usavano infatti, tra l'altro, certi strumenti (armi e arnesi) di pietra delle medesime fogge, chiamati, nel loro comples­so, « industria campignana » perché hanno un parziale riscontro tipologico nella regione di Campigny, in Francia.

Orbene, strumenti del genere vennero alla luce, per la prima volta (1929) nel Comune di Marano, nel fianco orientale del Castelon, là dov'era in antecedenza stato praticato uno scavo per estrarne marmi per le colonne della nuova chiesa. Un 15 anni più tardi, altri se ne rinvennero nella parte sottostante alla vetta e che degrada in direzione sud-ovest.

La civiltà campignana, che si classifica, pur con caratteri propri, tra le civiltà neolitiche o civiltà recenti della pietra, lasciò numerosissimi resti in diverse località della Lessinia. Nel territorio di Marano, ne furono scoperti, oltreché sul Castelon, anche a Ravazol, a monte Pér e, soprattutto, a Boschetti che è, in sostanza, un contrafforte meridionale del Castelon stesso.

I « Campignani » non abitavano in grotte, ma in capanne a fior di terra, esposte al sole e in luoghi riparati dai venti, e, pur restando prevalentemente cacciatori, cominciavano con ogni probabilità a coltivare qualche graminacea inferiore da grano, servendosi, per lavorare il terreno, del bastone appuntito di legno duro e della zappa con la lama di pietra. Quali fossero il loro ordinamento sociale e le loro credenze e pratiche magiche e religiose ai tempi del loro primo insediamento sui Lessini, del quale ci essere soltanto oggetto di congettura.

In linea di pura, e alquanto audace, ipotesi basata sul paragone col complesso culturale di odierne popolazioni « selvagge » che si trovano in analoghe condizioni eco­nomiche (agricoltura incipiente, strumenti litici di simile fattura e forma), possiamo ritenere che il loro ordinamento fosse orientato verso il predominio giuridico (indirettamente e limitatamente anche politico) della donna e che la loro religione fosse un culto reso ai Morti, alla Terra e alla Luna.

La civiltà campignana sta alla base dello sviluppo preistorico della Lessinia, e dura, almeno per quanto riguarda l'uso di certi suoi tipici strumenti di pietra, fino a inoltrata civiltà del bronzo; ma è, assai per tempo, raggiunta da civiltà con cui essa appare, quasi ovunque sui nostri monti (sebbene non assolutamente ovunque), intimamente mescolata.

Quest'ultime civiltà, anch'esse neolitiche, provenendo dall'Asia per le vie del Danubio, penetrarono nel Veneto a più ondate a partire dallo scorcio del IV millennio a. C.; e furono seguite da altre, eneolitiche, con cui rapidamente si fusero. Eneolitiche sono le civiltà che usano, con lo strumento di pietra, quello di rame.

Strumenti di pietra lavorati con la tecnica neo-eneolitica, distinta come tale dalla campignana che potremmo dire vetero-neolitica, furono raccolti nel comune di Marano, ancora sul Castelon e a Boschetti, oltreché a Castel Besin (a sud di Vagialta di sopra) e alla Porcarola, un vegro situato tra il vaio di Roasso e la Valsorda e che si spinge, da sopra la località detta Ciacalda, in direzione di Ca' dei Loi.

Le industrie neo-eneolitiche segnano, sui Lessini, il massimo sviluppo della litotecnica e il suo affinamento, attestato soprattutto dalla produzione di cuspidi di freccia e di lancia minutamente scheggiate e ritoccate, e da quella, per quanto assai ristretta, di asce levigate di durissime rocce verdi. Con quest'ultime, altri nuovi strumenti appaiono, tra cui, significativo, il falcetto di pietra, mentre s'incomincia a usare qualche oggetto di rame.

Durante questo sviluppo, si affermano la ceramica e l'agricoltura e l'allevamento di pecora, capra, bue, maiale e polli. Il cane era probabilmente in possesso già dei più antichi Campignani. Il cavallo entrerà in scena alquanto più tardi. Sorge il villaggio vero e proprio. L'organizzazione sociale si con­solida. Le relazioni commerciali, particolarmente con la pianura, s'intensificano. La religione è soprattutto culto del Sole e dei Morti. I cadaveri vengono sepolti in fosse rivestite di lastre di pietra, e si dà loro un corredo di armi e di arnesi dei quali dovran­no servirsi nell'aldilà: un uso il cui significato oscilla tra il simbolo e la realtà, e che indica, comunque, la credenza in un'esisten­za postmortale dell'uomo. Tombe del genere furono trovate, in questo territorio, a Man­drago e a Castel Besin.

Lo scorso anno (1966) si rinvennero a Zivelongo (alto vaio dei Progni) dei dolmen: cioè blocchi, o lastroni, di pietra posti oriz­zontalmente su dei supporti verticali, pure di pietra, e destinati di regola a proteggere delle sepolture collettive. Si protraggono dall'eneolitico fino in epoca protostorica.

Avanzi della successiva età del bronzo (siamo ormai nel II millennio a. C.) sono forniti, su questi monti, frequentemente da grotte. Si cominciano a fortificare gli abitati dei luoghi aperti, mentre i piccoli gruppi isolati preferiscono la grotta, più facile a difendersi: segno che qualche pericolo incom­be da parte di invasori.

Per quanto riguarda ancora il territorio maranese, ricorderemo che alcuni dei suddetti avanzi, come frammenti di ceramica e di asce di bronzo, furono scavati (1931) nel covolo detto Buso Streto, in località Ciacalda.

Allo svolgimento di questo periodo partecipa anche il Castelon. Durante i lavori per la nuova strada Pezza S. Maria, vennero in luce lo scorso anno (1966) resti riferibili, sembra, alla fine di quest'età e agli inizi di quella del ferro. Il riferimento ha una certa rispondenza archeologica nel fatto che, sulla sommità del monte, vi sono tracce d'un probabile castelliere: uno dei tanti fortilizi costituiti da muri a secco situati su alture e diffusi nelle Venezie in un periodo che, nei suoi inizi, sta appunto a cavallo tra l'età del bronzo e il principio di quella del ferro. Ivi sono anche i ruderi di costruzioni romane e d'un castello medioevale. Confusamente la tradizione popolare identifica questo complesso con un « Castel de Mario »; e tramanda che vi sia nascosto un favoloso tesoro. Di che « Mario » si tratti, è aperto alla congettura.

Frequentemente lungo le ripide pareti del cono superiore del monte e alla base di tale cono e, inoltre, nei campi di quel contrafforte del monte stesso che sovrasta la strada Pezza - S. Rocco e vien detto Casteleto, si rinvengono frammenti di vasi della seconda età del ferro. Furono trovati fra essi delle fibule (fermagli) di bronzo e di ferro del tipo « La Tène » (dal nome della località svizzera, donde, a partire da circa il 5oo a. C., s'irradiarono particolari elementi culturali). È possibile che, lungo il decorso dell'età del bronzo e di parte di quella del ferro, poiché erano tempi d'invasioni e di guerre, gli abitanti delle adiacenze del Castelon si trasferissero, almeno durante certi periodi, su questo monte e sul Casteleto, sotto la protezione di fortilizi, e che solo in seguito stabilissero definitivamente la loro dimora nelle località aperte dove ora si trovano le tre contrade di Pezza, S. Rocco e Purano.

Con lo svolgersi dell'età del bronzo e, successivamente, di quella del ferro, tutta la regione lessinica segue, sebbene con notevolissimo ritardo, il progresso che via via si afferma nella pianura veneta. In questa vengono incontrandosi, e si contrastano o parzialmente si fondono, correnti etniche diverse. Si moltiplicano le vie di comunicazione terrestri e fluviali parallelamente col diffondersi del carro e col perfezionarsi dei mezzi nautici. L'aratro si fa pressoché universale. S'affacciano la scrittura, la moneta, íl politeismo. E, come sviluppo dell'antico borgo eneolitico, centri industriali, commerciali e politici, sorgono le città: tra le altre, per tacere di quelle del litorale, Padova ed Este, antichissime, e, ai piedi dei Lessini, Verona, confluenza, secondo la piú antica tradizione raccolta da Plinio e da Strabone, di Reti e di Euganei. Si entra così gradata­mente nella storia.

In età romana, la Valpolicella era occupata da genti di oscura appartenenza etnica, che chiamavano se stesse Arusnates. I documenti che ne attestano la presenza sui nostri monti sono un centinaio di epigrafi, di cui un certo numero convengono nomi di divinità. Di questi, alcuni sono latini, come Vesta, Iupiter, Sol et Luna, Saturnus, Minerva, Iuno. È da supporre, con fondamento, che tali nomi latini abbiano sostituito nomi di corrispondenti divinità arusnati.

Ora, sul Castelon sorgeva un tempio dedicato a Minerva; la quale era, in Roma, dea dell'intelligenza, vergine e protettrice delle arti e delle scienze, come pure di tutti i lavori femminili: protettrice della pace, dunque, anche se della pace dopo la vittoria.

Il tempio era situato sul pendio del monte che guarda a S. Rocco. È interessante ricordare che, fino a circa un 5o anni fa, questa contrada i vecchi la chiamavano preferibilmente Minerva, oppure Minerbe; e che, nei primi decenni del secolo scorso, essa era, nella denominazione popolare predominante, Santa Minerba.

Il tempio in parola si trovava a sinistra di chi, scendendo dalla chiesa di S. Maria, si diriga a S. Rocco per la stradetta che percorre  il versante meridionale e poi quello orientale, del monte. Precisamente sorgeva un poco addentro dove ora è la coara, spesso ridotta a cavedagna, che viene imboccata dalla processione quando questa, nel giorno della festa della Madonna, gira attorno al monte stesso. Fu scavato nel 1836; e se ne misero in luce molti resti di cui alcuni come frammenti di colonna e di pavimento, erano visibili, sparsi al suolo, ancora nel 1929. Tra quelli raccolti e che ora si trovano a Verona, deve menzionarsi un'epigrafe - di eccezionale importanza, perché permise a B. BORGHESI, un celebre archeologo di al­lora, di supporre che Caio Masurio Sabino, grandissimo giureconsulto dell'età di Tibe­rio (47 a.C. - 37 d.C.), fosse originario di quella città o del suo territorio.

La distruzione del tempio avvenne pro­babilmente sotto Onorio (m. nel 423 d.C.), quando già il cristianesimo era stato dichia­rato religione ufficiale e ogni culto pagano proibito.

Questo tempio rappresentava, certo, il centro religioso-cultuale della zona. Ed è dif­ficile pensare che, dopo la sua distruzione, non si fosse sentito il bisogno di sosti­tuirlo, se non con un altro, almeno con qual­che modesta edicola cristiana; edicola che saremmo portati a collocare nel luogo stesso dove, tanti anni più tardi, sarebbe sorta la attuale chiesa di S. Maria. È frequente, in­fatti, il caso di chiese cristiane che furono erette nelle vicinanze, o nello stesso luogo, dove prima esisteva qualche cappella, o nic­chia, o edicola cristiana o pagana.

S'affaccia qui l'ipotesi d'un culto attri­buito alla Madonna dagli abitanti di Ma­rano già nel primissimo medioevo. I tempi erano allora favorevoli a ciò: la distruzio­ne del tempio di Minerva precedette di po­co il concilio di Efeso (43 z d. C.) nel quale Maria Vergine fu proclamata Madre di Dio; il che diede immenso e immediato impulso al culto della Madonna in tutto l'Occidente e l'Oriente.

In secondo luogo, l'ipotesi potrebbe venire suffragata da un motivo psicologico da porsi in relazione col culto antecedentemente prestato a Minerva, in quanto la Madonna era figura adatta ad accogliere in sé alcuni attributi della vergine Minerva, a subentrare, entro certi limiti, a questa. D'altra parte, naturalmente, poiché collocata in un piano ideale ben più alto, sia come Madre di Dio, sia come esaltazione dei più puri valori della donna che sono la verginità e la maternità, in essa misteriosamente congiunti, finì con l'eliminarla.

Ma ancor oggi, la processione in cui, nel giorno della sua festa, se ne porta la statua attorno al monte, segue quel percorso che, considerata la posizione del tempio pagano, fu probabilmente lo stesso di quando vi si portava in processione la statua della dea.

Risulta, dai cenni forniti sin qui, come la regione di Marano abbia, nel suo complesso, seguito le vicende generali della Lessinia preistorica. Un posto di primo ordine spetta, in essa, all'archeologia del Monte Castelon e delle sue adiacenze, in quanto ci offre l'esempio d'uno sviluppo pressoché ininterrotto dal primo neolitico all'età protostorica. Risulta ancora, in particolare, l'ininterrotta importanza, a partire da tale età, del Monte Castelon come centro religioso della regione attraverso il culto successivamente reso alle divinità arusnati, alle romane e, infine, alla Vergine cristiana.