CENNI SUL
FOLCLORE
a cura di
GIANNI FAE'
Nella
montagna veronese gli usi e i costumi delle antiche popolazioni,
forse più che altrove, si sono tramandati e conservati per il favore
delle particolari condizioni ambientali, come l'isolamento che ha
determinato la sopravvivenza dell'isola linguistica di Giazza. Allo
studioso che sappia pazientemente indagare la Lessinia può offrire
abbondante messe.
Si tratta
per lo più, ormai, non tanto di manifestazioni clamorose ed
appariscenti, quanto di abitudini domestiche, di tradizioni
familiari, di regole locali e, talvolta, di vere e proprie « leggi »
consacrate da una necessità economica, da conseguenze ambientali, da
consuetudini religiose, da superstizioni. Queste consuetudini sono
in linea di massima rispettate, anche se spesso la loro osservanza
appare intiepidita o adombrata da una poco convinta
spregiudicatezza, specialmente per l'influenza della mutata
mentalità delle nuove generazioni.
La
diffusione dei mezzi di comunicazione, della stampa e
dell'istruzione soprattutto, hanno attenuato il rigore di una
pesante bardatura mentale, che in alcuni casi fortunatamente
circoscritti rappresenta tuttora una grave remora, fin negli aspetti
più immediati della realtà quotidiana, allo sviluppo e al naturale
progresso della vita sociale di alcuni paesi più disagiati e meno
accessibili. Con il rapido aumento dei mezzi di trasporto e con
l'intensificarsi dei rapporti civili e sociali molto del passato sta
scomparendo senza rimpianti e senza recriminazioni.
Vero è
d'altra parte che, molto spesso, tradizioni usi e costumi sono
permeati da un chiaro spirito di fresca ingenuità, di sottile
fantasia, e lasciano trasparire una loro particolare bellezza di
primitiva, ma viva poesia. In special modo nel campo strettamente
familiare e nel solco delle tradizioni religiose, non è difficile
cogliere un genuino e positivo valore dei più profondi e
incontaminati sentimenti: la fede e la famiglia costituiscono ancora
i due pilastri fondamentali per la vita dei nostri montanari.
Forse
ispirati dagli aromatici vini di Marano sono sbocciate tante fra le
villotte che furono raccolte nel secolo scorso dal Righi e che si
modulavano
con note uniformi sulle aie, alternandole con le battute del
cembalino e con la danza della furlana o della monferrina.
Nel
folclore del paese non mancano le leggende: da quelle erudite che
narrano di Caio Mario contro i rozzi Cimbri e della cruentissima
battaglia delle legioni di Stilicone contro i Visigoti di Alarico, a
quella della grande e meravigliosa statua tutta d'oro della dea
Minerva sepolta nelle profonde viscere del Castelon. Meritano una
particolare attenzione le « feste » e le « sagre » che in diversi
paesi della montagna veronese si svolgono immancabilmente con lo
spettacolo dei « tromboni », in alcune località chiamati « trombini
» o « pistoni ».
A Marano,
la tradizionale processione della statua della Madonna intorno al
Castelon si conclude ogni anno con lo sparo delle caratteristiche
armi dall'alto del monte, che domina per un vasto raggio la
Valpolicella, e costituisce una delle più interessanti
manifestazioni popolari della Lessinia.
In realtà
non si tratta di una tradizione molto antica, ma risalente tutt'al
più ai primi decenni del secolo scorso, almeno nella sua forma
attuale, benché la struttura dei « pezzi » si richiami agli
archibugi o alle colubrine del 16oo e del
1700.
In una
descrizione della festa per il solenne ingresso di don Luigi
Perbellini, parroco d'Illasi, avvenuta il
12
maggio
1839, Bonifacio Sprea informa che accanto agli archi monumentali
eretti dai bravi parrocchiani si
rimiravano in lunga schiera distribuiti 35 gagliardi uomini
pistonieri coi loro schioppi in spalla che parevano coscie di bue,
con cappelli infiorati, infioccati, con altrettanti portapolvere ai
loro fianchi. Un Comandante, un'Aiutante, ed un Sorvegliatore di
Polizia fronteggiavano gli artiglieri, ed un garzoncello vestito a
bianco turchescamente, con fiori in testa, e bandiera in mano li
tramezava. La delicatezza del giovinetto veduto allato alla
robustezza di quelli atleti faceva un contrasto piacevolmente
maraviglioso. Parea la Pace seduta in mezzo a guerrieri armati dopo
la fiamma della battaglia.
Infatti,
prima che il lungo corteo di carrozze varcasse il torrente Progno,
la balda artiglieria aveva salutato il passaggio
nella distanza ad un miglio e mezzo, con una salva di pistonate così
vemente che la valle tutta da capo a fondo ne rimbombò. Una seconda
salva sorella affatto all'antecedente si senti poi. Dopo l'uscita di
questo scoppio, pel giusto titolo di salvezza degli cavalli, dei
cavalieri, dei timorosi, e di ciascheduno, il tremuoto dell'armi
stette in silenzio fino all'entrata nel Santuario del sacro
Pastore.
L'ode
composta per l'occasione diceva fra l'altro:
De'
Pistoni il tuon fortissimo Fa la terra traballar...
L'ingresso
solenne del nuovo parroco si concludeva infine
nell'esultanza degli organi e nel generale cannonamento
dell'artiglieria popolare.
I «
tromboni » sono infatti dei veri e propri pezzi di artiglieria ed
avancarica, originari della montagna ed opera di pazienti artigiani.
Oggi sono sparsi un po' dovunque nei paesi del Veronese, Vicentino,
Bresciano, Mantovano e Trentino; ma al richiamo di una festa
straordinaria ritornano quasi tutti come per incanto alla montagna.
Abbiamo
avuto occasione negli anni scorsi di ammirarne una batteria in un
paese sui monti della Lessinia orientale. Ognuno portava il suo nome
originale, come Gemello, Temporale, Lustrin, Son qua anca mi.
Nomi, come
si vede appropriati e significativi. Il più bello di tutti,
l'orgoglio della squadra si chiamava « Terra motto » (sic!), ricco
di fregi in ottone e argento, del rispettabile peso di
58
chilogrammi; singolare era la tavoletta sul fianco con incisi i
seguenti versi:
«
Al vedermi ti spavento
se mi provi sarai contento
sii onesto nel cargare
se non vuoi in terra andare.
Il piacer che tu mi fai
sempre in spalla
in terra mai ».
La maggior parte di questi «
tromboni » è dell'Ottocento, (uno con la data del 1876), e pesano
ognuno circa 50 chilogrammi. Sono composti da un poderoso calcio in
legno con una larga base e da una canna la cui bocca termina
svasata a mo' di campana; la parte terminale porta in fusione
bellissimi rilievi di figure e di fiori. La cassa e il piede di
legno, talvolta lavorato, sono abbelliti da parti metalliche con
decorazioni varie e portano sulla destra una grossa maniglia, il
cane e il grilletto per l'accensione dell'esplosivo, costituito da
una precisa dose di polvere nera.
Il caricamento viene eseguito
dagli specialisti versando nella canna l'esplosivo, che viene
compresso con un legno e una mazza pure di legno: un lavoro
delicato. Lo sparo è quanto mai di più caratteristico si possa
sentire, e costituisce la parte più spettacolare: gli uomini e i
giovani più forti e coraggiosi si cimentano a prova premendo il
grilletto e, nel momento dell'esplosione fumosa e fragorosa,
sollevando il pesante pezzo sulla spalla sinistra sfruttando la
forza di rinculo e contemporaneamente rigirandosi su se stessi. C'è
poi tutto un cerimoniale, al qual, sovrintende un capo.
Spesso lo sparatore si lega alla
gamba sinistra un grosso sacco, detto « s-ciavin » per attutire i
colpi. Gli uomini coi pezzi sono talvolta in divisa e marciano
inquadrati lungo le vie del paese per recarsi sul luogo dello
sparo, che per evidente precauzione avviene sulle alture
circostanti. Non è raro il caso che la dosatura e la compressione
della polvere non sia esatta e scoppi l'arma, come ricorda l'ex voto
nella chiesa di S. Maria di Valverde e riprodotta nel presente
volumetto.
Una corda trattiene la folla,
sempre numerosa, che assiste allo spettacolo ed applaude a seconda
della riuscita dei vari colpi.
Una manifestazione folcloristica
di particolare interesse, dunque, quella che si svolge a Marano
come in altre località dei nostri monti; un'attrattiva antica e
singolare che merita di essere conosciuta dai turisti, che non
mancano mai nelle feste tradizionali e nelle sagre della montagna
veronese. Una iniziativa popolare, diciamo noi, che torna conto per
molti aspetti di sostenere e di valorizzare.
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