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Dal Giornale L'Arena del 31 marzo 2007
Marano. Sul monte Castelon la realtà supera abbondantemente la fantasia
e dalla terra spuntano spettacolari testimonianze del lontano passato
maranese, che sembravano ormai destinate a rimanere nella leggenda. A
togliere il velo di mistero su quello che già dai primi sondaggi gli
stessi ricercatori hanno definito eccezionale, ci hanno pensato la
Soprintendenza per i beni archeologici del Veneto e il Comune di Marano,
entrambi alla caccia del TEMPIO perduto dedicato al culto della DEA
MINERVA e di quanto aveva scoperto nel 1835 il conte Giovanni Gerolamo
Orti Manara.
Quasi due secoli fa il nobile studioso effettuò una serie di scavi
archeologici sul «fianco a levante» del monte Castelon di Marano, poco
sopra l’abitato di San Rocco, incuriosito sia dal toponimo (Minerbe) sia
dai ritrovamenti fatti da alcuni contadini del luogo. Gli scavi di
allora portarono alla luce diverso materiale, peraltro di notevole
interesse; anche se, lo scopriamo oggi, una minima parte di quanto giace
sotto i ciliegi del Castelon si è conservato fino ad oggi.
«In particolare», sottolinea Brunella Bruno, funzionario archeologo
responsabile del territorio veronese per l’età romana e medievale, «Orti
Manara riportò alla luce parte di un ambiente con pavimento segmentato
solidissimo bianco e rosso, circondato da un portico a segmento bianco e
un piccolo avanzo di intercolunnio murato di ordine dorico. Il muro che
racchiudeva le colonne era in opera reticolata, di grande prestigio,
raramente attestata fuori dall’Italia centrale, se non in complessi
architettonici di elevata committenza. In Italia settentrionale l’opera
reticolata risulta presente solo a Verona, nel teatro romano». La
dottoressa Bruno prosegue: «È probabile che i resti siano rimasti a
vista, spogliati via via nel tempo di tutto l’apparato strutturale e
decorativo».
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